venerdì, 11 Ottobre , 24

Bruce Willis, di che malattia soffre davvero l’attore? Cosa dicono gli scienziati

Bruce Willis, di che malattia soffre davvero l’attore? Cosa dicono gli scienziati

(Adnkronos) –
Di che malattia soffre l’attore Bruce Willis? E’ una domanda alla quale i media non hanno risposto correttamente, secondo quanto denuncia un’analisi pubblicata dalla Oxford University Press sulla rivista scientifica ‘Innovation in Aging’. Gli autori hanno preso in esame la copertura delle notizie riguardanti le condizioni di salute della star hollywoodiana. “Una copertura imprecisa”, decretano, “che rivela una conoscenza limitata da parte dei media e del pubblico di questa malattia”, una degenerazione frontotemporale (Ftd), meglio nota come demenza frontotemporale.  

Tutto comincia nel 2022, quando la famiglia dell’attore rilascia una dichiarazione in cui annuncia l’addio di Willis alla recitazione, per via di una problema di salute: un’afasia, cioè un disturbo del linguaggio che si esplica alterando la produzione delle parole e la loro comprensione e la capacità di leggere o scrivere. Segue 10 mesi dopo una nuova dichiarazione, sempre della famiglia, con la quale si comunica che i medici hanno diagnosticato a Willis una condizione più specifica, una forma di degenerazione frontotemporale.  

I riflettori mediatici si accendono ancora di più e ne scaturisce un’esplosione di servizi, poiché importanti organi di informazione producono storie che descrivono la patologia a un pubblico che in gran parte ignora di che si tratta. “La qualità di queste storie variava ampiamente e in molti casi i giornalisti hanno travisato le descrizioni e i fatti di base sulla relazione tra afasia e degenerazione frontotemporale”, osservano gli esperti. “Piuttosto che descrivere come si è scoperto che la degenerazione frontotemporale era la fonte dell’afasia di Willis, molti report descrivevano la sua afasia come una condizione che stava progredendo in demenza frontotemporale, il che implica che si tratti di due disturbi diversi”.  

La dichiarazione ufficiale della famiglia dell’attore “descriveva accuratamente la relazione tra afasia e degenerazione frontotemporale – puntualizzano gli autori dell’analisi – e infatti la degenerazione frontotemporale” veniva presentata come “una diagnosi più specifica della causa dell’afasia subita da Willis. Ma quando parafrasata dai conduttori in diversi programmi televisivi la sera stessa, la relazione è stata riformulata in modo fuorviante”. In realtà, chiariscono i ricercatori, non è che l’afasia di Willis si è trasformata in demenza frontotemporale. La sua afasia era un sintomo di degenerazione frontotemporale e dopo 10 mesi i suoi medici avevano scoperto la patologia di base. 

Perché i giornalisti hanno commesso questo errore? L’articolo ipotizza che l’immagine dell’afasia che si sviluppa in qualcos’altro abbia “creato una narrazione migliore: una storia esoterica e complicata sul chiarimento diagnostico non è così interessante come la storia di una star del cinema che soffre di ulteriori difficoltà”.  

L’articolo rileva inoltre che anche il termine demenza frontotemporale potrebbe aver creato confusione. Demenza, riflettono gli autori, “evoca connotazioni spiacevoli nell’immaginario pubblico, che potrebbero aver modellato la copertura giornalistica. Infatti, l’organizzazione no-profit che fornisce informazioni e supporto alle persone colpite dalla condizione di Willis, l’Association for Frontotemporal Degeneration, ha rimosso la parola demenza dal suo nome già nel 2011, preferendo invece il termine ‘degenerazione’”. 

Le rivelazioni della famiglia di Willis “hanno provocato un’esplosione di copertura mediatica, attirando preziosa attenzione sulla degenerazione frontotemporale, evidenziando allo stesso tempo la scarsa familiarità dei media e del pubblico in generale con la malattia”, riepiloga l’autore principale dello studio, Robert Hurley. “Data la confusione che circonda la patologia, la coraggiosa rivelazione da parte della famiglia Willis è un modello per educare il pubblico su questa malattia ancora nascosta”, conclude Steven M. Albert, editor-in-chief di Innovation in Aging. 

Potrebbe interessarti

Check out other tags:

Articoli Popolari