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Gaza, Martini (SSCh): “Un’impresa garantire il cibo tra i raid”

MondoGaza, Martini (SSCh): “Un’impresa garantire il cibo tra i raid”

ROMA – “Il nostro staff a Gaza era composto da cinque membri, tutti palestinesi. Ora ne restano tre, dopo la morte di due di loro. Uno è rimasto ucciso in un bombardamento e l’altro è annegato in mare mentre stava scappando. Avevano 25 e 27 anni, hanno lasciato mogli e figli“. Con la Dire parla Arianna Martini, fondatrice e presidente di Support and sustain children (SSCh), associazione italiana che dal 2013 si occupa di portare assistenza e diritti ai minori in zone di guerra. L’impegno nella Striscia di Gaza, spiega la dirigente, è arrivato dopo i fatti del 7 ottobre, quando, dopo l’assalto di Hamas nel sud di Israele, quest’ultimo ha avviato l’operazione militare su larga scala contro la Striscia, accompagnata dal blocco all’ingresso di qualsiasi prodotto o materia prima, come acqua e luce.

Proprio le difficoltà che i civili affrontano da allora ha spinto Martini e il suo team ad agire: “Abbiamo lanciato un piccolo intervento a marzo- racconta- partendo dalla distribuzione di acqua acquistata dalle autobotti, due volte a settimana. Ad oggi le cisterne sono state quasi tutte danneggiate, servirebbero impianti di desalinizzazione, ma non si riesce a farli entrare”. All’acqua, SSCh ha poi aggiunto la distribuzione dei beni di prima necessità e lo staff sul campo si occupa sia di reperire che distribuire i beni: “A Gaza noi italiani non abbiamo ancora messo piede” avverte la presidente di Support, confermando le restrizioni all’accesso che da ottobre Israele impone all’ingresso degli operatori umanitari internazionali.

Così, ci si affida unicamente al personale sul terreno, che però, come il resto della popolazione a cui non è consentito lasciare Gaza, “devono sfuggire agli attacchi e occuparsi dei famigliari. A volte ci raccontano che dormono in strada, o che devono cercare i loro cari, dispersi dopo i raid”. Qualche mese fa, la morte di due di loro: “Avevamo un rapporto stretto, non ci sono parole per descrivere come ci sentiamo. Ma il peggio lo vivono loro”. Proprio in questi giorni, con le offensive dell’esercito israeliano che non risparmiano obiettivi come scuole, campi profughi o edifici residenziali – azioni che per il diritto internazionale ricadono nel crimine di guerra e contro l’umanità – è ricominciata la fuga per migliaia di civili tra cui anche gli operatori di SSCh: “Questo rende tutto più difficile”, spiega Martini.
“Il nostro obiettivo- continua Arianna Martini, fondatrice e presidente di Support and sustain children (SSCh)- sarebbe garantire una distribuzione costante di prodotti come latte in polvere, farina, carne, scatolame. Ma è impossibile”.

La responsabile spiega che, per aggirare il problema dei convogli di aiuti che le autorità israeliane fanno entrare con difficoltà nella Striscia (a luglio, secondo l’Onu, sono entrati in media cento camion al giorno sebbene ne servano almeno 500) l’associazione acquista forniture dirattamente all’interno di Gaza ma “i prezzi sono alle stelle. Ad esempio, un sacco di farina da 1kg può costare fino a 35 dollari. Il latte in polvere è introvabile. Per il resto, acquistiamo quello che troviamo. Quando riusciamo a mettere in piedi una cucina sociale, distribuiamo pasti caldi, il che è molto utile alle famiglie sfollate che hanno perso la casa e nelle tende non possono cucinare. Poi accade che l’area venga bombardata e perdiamo la cucina, così torniamo a distribuire pacchi alimentari e cibo in scatola”.

Il prossimo passo di SSCh è far entrare tre medici: “Senza acqua e cibo, e con le temperature estive che rendono invivibile la vita nelle tende, le malattie si stanno diffondendo rapidamente” avverte Martini. A causa della distruzione dei sistemi fognari e della mancanza di igiene, oltre a epatite, colera e dissenteria, di recente sono stati rilevati anche casi di poliomielite. “Vogliamo realizzare un piccolo ospedale da campo per fornire cure pediatriche e contro malnutrizione, malattie croniche e infezioni, e poi cure palliative per il dolore, sia per i malati terminali che per i feriti. Dalla nostra esperienza in Siria, sappiamo che in guerra l’emergenza è il trattamento dei feriti e anche un piccolo team fa la differenza. Abbiamo presentato il progetto all’Organizzazione mondiale della Sanità, aspettiamo il via libera dalle autorità di Israele”, conclude.

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