domenica, 14 Luglio , 24

Silvia Paolucci, innamorata della scienza che non l’ha salvata

Silvia Paolucci, innamorata della scienza che non l’ha salvata

ROMA – “Questa mattina siamo andati a fare un giro in bici e ho mostrato alla piccola Arianna la scuola dove andavamo io e sua mamma. Lei ha guardato il cielo e le ha parlato. Sa che non c’è più, è stata anche al cimitero a trovarla”. Carlo, il fratello della giovane Silvia Paolucci, morta a soli 39 anni a febbraio di cancro al seno associato alla mutazione BRCA1, ha raccontato con queste poche parole la passeggiata con la sua nipotina, rimasta orfana di mamma a soli 4 anni. Insieme a Giovanni, il marito di Silvia, per la Dire hanno ripercorso la storia di questa giovane donna innamorata della scienza, della biologia, studiosa attenta del DNA, morta di tumore al seno metastatico.

La sua è stata fino alla fine una testimonianza senza sconti, lucida, consapevole, anche nella sofferenza degli ultimi mesi quando, ormai terminale, hanno deciso di tenerla a casa mentre il mondo fuori veniva paralizzato dal Covid. Oggi, alla sua memoria, l’associazione Mutagens, nata per promuovere la ricerca per le persone portatrici di mutazioni genetiche, di cui Silvia era socia fondatrice e consigliera con delega alla Ricerca, ha deciso di dedicare un Premio di Laurea.

LA DIAGNOSI, LE CURE, GLI ULTIMI GIORNI

Silvia è morta nella sua stanza, con un tumore metastatico che le aveva invaso la pelle e che ha reso difficile le cure palliative, la sedazione, e l’ha condannata ad una morte lenta: “Non potevo vedere mia sorella soffrire in quel modo. I farmaci raggiungevano difficilmente la pelle, eravamo arrivati a farle iniezioni di morfina ogni mezz’ora” ha raccontato Carlo, 35 anni, un lavoro di responsabile in Decathlon. Anche lui con mutazione BRCA1 e come sua sorella portatore anche di un’altra, l’ATM, ereditata la prima dalla madre e la seconda dal padre. “È andato tutto storto con Silvia” ha ripetuto più volte durante l’intervista. Rientrata dopo anni di ricerca all’estero, si era trasferita in Nord Italia dove suo marito lavora come docente all’università. Una figlia pronta per il nido, tutto sembrava andare a gonfie vele, e Silvia non poteva immaginare di essere tornata a morire. Aveva deciso, dopo la diagnosi di cancro al seno, e prima della scoperta delle metastasi, anche di sottoporsi ad un’annessiectomia preventiva. Sapeva che quella mutazione non lasciava scampo e voleva mettersi in sicurezza. “Non ha avuto il tempo di farlo prima” ha detto suo marito, quando la mutazione genetica scoperta in Silvia all’inizio non rientrava nelle liste di quelle patogenetiche che possono dare accesso alla chirurgia preventiva. La classificazione delle mutazioni richiede un tempo.

IL TEMPO DELLA SCIENZA, DA VUS A MUTAZIONE PATOGENETICA

La consapevolezza di una familiarità era in lei, donna di scienza, ben presente da sempre. Sin dai 19 anni si sottoponeva a controlli periodici. La mamma era morta a poco più di 50 anni di cancro all’ovaio, dopo averlo avuto anche al seno. Silvia seguiva gli esami diagnostici, consapevole del rischio. Biologa evoluzionista, viaggia, trascorre dieci anni all’estero, fa ricerca. Si sottopone al test genetico ad aprile 2018 e scopre che la sua mutazione è una VUS (variant of uncertain or unknown significance), quindi non patogenetica. Se pure avesse voluto, non avrebbe avuto indicazione per la chirurgia preventiva. Ma ad agosto dello stesso anno sente un nodulo e da lì a poco arriva la sentenza di un carcinoma duttale infiltrante. “Ma non è avanzato e non ci sono metastasi in giro” come scriveva la stessa Silvia in una lettera aperta che ha fatto il giro del web durante la giornata del 13 ottobre, dedicata al tumore del seno metastatico e ripresa dal blog dalla chirurga senologa Alberta Ferrari, ‘Ferite Vincenti’. Quella diagnosi spietata che poi invece arriverà, e che in Silvia si manifesterà con metastasi cutanee. “Il 23 gennaio 2020 è stato il giorno più brutto della mia vita” scriveva ancora Silvia, che è stata condannata alla “beffa di vedere crescere” sotto i suoi “occhi questo maledetto tumore. Le metastasi cutanee ti si piazzano di fronte ogni volta che ti specchi. E sono molto dolorose” spiegava con parole oneste. Quel giorno, dopo il verdetto, Giovanni l’ha ricordata così: “Era disperata. Io e lei sapevamo che iniziava un conto alla rovescia”. Eppure, Silvia tenta tutto. Se prima diceva, come ricorda suo fratello Carlo, “io non voglio un mese di vita in più, ma dieci anni”, per sua figlia “cambia prospettiva”, ricorda suo marito. Quella VUS rilevata dal test genetico da lì a poco verrà riconosciuta come patogenetica a tutti gli effetti. La scienza arriva troppo tardi per salvarla. “Solo dopo infatti, quando ormai era già malata, arriverà infatti dall’Istituto nazionale dei Tumori- ha ricordato con amarezza suo fratello- la conferma. Da biologa sapeva tutto, forse lo sapeva da sempre e con lucidità”. “Il primo anno dopo la diagnosi lo abbiamo vissuto con una certa speranza” ha ricordato suo marito Giovanni. “Provammo tutte le linee terapeutiche, l’immunoterapia, la chemio, la radio. Anche dopo le metastasi, ha provato tutto il possibile, dalle varie linee di chemio ai PARP inibitori. Nulla funzionava per più di qualche settimana. A ottobre dello scorso anno stavamo per provare l’ennesimo trattamento, in Svizzera” ha ricordato. Ma Silvia non potrà accedervi a causa di un versamento pleurico che rallenta l’inserimento nello studio.

LE METASTASI, ‘L’AFFRONTO DELLA MALATTIA’ E LA MORTE

Le metastasi cutanee arrivano a coprire la parte destra del corpo formando ‘una corazza’, come lei stessa descrive nella sua lettera confessione, che cerca in tutti i modi di non far vedere alle persone a lei più vicine. “Quando si chiudeva in bagno e sentivo il rumore di questo scotch, metri e metri di nastro che Silvia metteva sul torace, era terribile- ha raccontato Giovanni- la sentivo disperarsi, piangere perché vedeva questa cosa crescere ogni giorno di più. Era l’affronto della malattia. E dopo aver trovato un centro medicazioni che l’aiutava, con il Covid è stata costretta a fare tutto a casa da sola, con il solo aiuto di una sua amica chirurga. La ferita derivante dall’avanzamento della malattia era arrivata a scoprirle la protesi destra, costringendola ad un uso prolungato di antibiotici che a continua a leggere sul sito di riferimento

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